DIANTHÉO
Dianthéo. Io rifiorisco. Qui e ora. Al confine di un inverno che nessuno sa. All’universalità granitica dell’infinito Erman Izzi preferisce la nudità del presente indicativo, alla prima persona. Il suo intento programmatico è infatti quello di indagare, in una serie di dittici, non il rifiorire – assoluto, rassicurante, ma irrimediabilmente impersonale – quanto piuttosto la rivoluzione segreta per cui io rifiorisco, a mio modo, oltre il freddo che è capitato a me. L’inverno di ciascuno non danza su giorni fissi, inchiodati al calendario, ma arriva all’improvviso. E rompe.Squarcia. Confina. Spesso sbuca, irriverente, quando fuori c’è il sole e, ripensando a de André, “per soffrire di maggio, ci vuole tanto, troppo coraggio”. È il mio inverno, quello che esplora Erman Izzi. Quella sofferenza che mi rende nudo, opaco e inconoscibile, agli altri e a me stesso. Spesso è il corpo il primo che avverte il dolore, il primo che lo ammette e lo sputa fuori, obbligandoci a vederlo. Ed è proprio il corpo la radice da cui parte Erman Izzi: un corpo nudo, disarmato e potente nel contempo. Un corpo spogliato di ciò che sembra, ciò che copre. Solo, di fronte al velo di Maya del suo dolore. Proprio in quel telo, che tratteggia e sbiadisce la carne nuda, Izzi declina e approfondisce uno degli assi della sua poetica: l’estetica del confine. Nel suo progetto precedente, Limes, aveva infatti esplorato l’angolo più in ombra dell’io, quel solco a partire dal quale tu non puoi più entrare, perché la mia storia smette di avere parole. E resta un’intuizione muta, solo mia. Ora quel confine non riguarda più il rapporto tra me e gli altri ma la distanza, irrimediabile, tra me e me stesso, che il dolore porta con sé. Ogni volta che sono un passo più lontano da quello che ero, da quello che vorrei. Ogni volta che, nella fretta dei giorni, smetto di ascoltarmi, fino a non riconoscermi più. Quel velo è un vero e proprio diaframma tra le stagioni dell’esistenza. C’è chi, infatti, lo trasforma in un bozzolo e vi si rinchiude, dentro un interminabile inverno – e chi, invece, rifiorisce, dentro un giorno qualunque. È quello squarcio sulla tela, la primavera, quello strappo di terra in cui, al confine dell’inverno, spuntano i fiori. Questa primavera dell’essere viene sorpresa, da Izzi, nei volti che emergono, nitidi, che rinascono da un vero e proprio parto dell’anima, dentro e oltre il dolore di ieri. Il rifiorire, però, non esiste. Come ogni pianta sceglie il suo terreno e la sua stagione, così ogni io, per sbocciare di nuovo, trova una strada, una ragione, – o forse un’intuizione di felicità, che Izzi rappresenta nell’altra parte del dittico. Per ogni soggetto sceglie un’immagine che è un’allegoria di senso. Per ogni io un elemento – che è un ricordo, un monito o forse un fratello d’anima. Nell’abbraccio, affascinante ed ermetico, di queste due immagini, si tratteggia così quella rivoluzione di esistenza per cui il dolore, da confine, diventa strumento di conoscenza, di intuizione, di altrove – perché è solo alla fine di ogni inverno che sboccia, irriverente, una nuova primavera.
GEORGE GRAY
Molte volte ho studiato la lapide che mi hanno scolpito: una barca con vele ammainate, in un porto. In realtà non è questa la mia destinazione ma la mia vita.
Perché l’amore mi si offrì e io mi ritrassi dal suo inganno; il dolore bussò alla mia porta, e io ebbi paura; l’ambizione mi chiamò, ma io temetti gli imprevisti.
Malgrado tutto avevo fame di un significato nella vita. E adesso so che bisogna alzare le vele e prendere i venti del destino, dovunque spingano la barca.
Dare un senso alla vita può condurre a follia, ma una vita senza senso è la tortura dell’inquietudine e del vano desiderio. È una barca che anela al mare eppure lo teme.
ARA HOMINIS
Teche, reliquiari ed icone hanno accompagnato per secoli la storia degli uomini, simboli religiosi che hanno avuto il ruolo fondamentale di creare un ponte tra vita terrena e spirituale o, più realisticamente, hanno utilizzato il corpo come strumento di santità e quindi come elemento tangibile in grado di dimostrare l’esistenza di qualcosa di indimostrabile.
Nonostante questo, per tanto tempo, il corpo ha rappresentato un tabù e per certi versi lo rappresenta ancora ai giorni nostri. Tralasciando per un istante che il corpo nella cristianità rappresenti Dio “fatto a sua immagine e somiglianza”, ed è l’unica religione a farlo, possiamo riflettere sulla forza evocativa del corpo, tanto da divenire per la sua estetica oggetto di misticismo.
L’iconografia religiosa trasla la spiritualità e la santità nella rappresentazione del corpo, accostando all’immagine dell’uomo tutta una serie di simboli, che contribuiscono a sottolinearne la straordinaria levatura morale. Il corpo è oggetto di adorazione anche dopo la morte, grazie alle reliquie, che in verità sono state usate dai potenti anche per affermare il proprio potere e prestigio personale. Ne è un esempio l’imperatrice Costantina, che nel 594 in una lettera indirizzata a papa Gregorio Magno chiedeva che le fosse inviata la testa di San Paolo o altre reliquie dell’apostolo.
Il misticismo estetico del corpo è perfettamente rappresentato anche da questa opera di Erman Izzi, la quale in realtà è un ritratto, ma anche un libro di simboli attraverso cui leggere l’immagine.
La posizione assunta dal corpo. La postura del soggetto ritratto è perfettamente corrispondente a quella che ci propone da sempre l’iconografia religiosa, nei dipinti, negli affreschi ed anche nei santini votivi. Il soggetto è il perfetto protagonista di un impianto scenico che mette in atto la rappresentazione di una storia. Un piede proteso in avanti, le braccia leggermente aperte lungo il corpo, i palmi delle mani esposti. Tutti segnali che indicano apertura, nel senso di desiderio di donarsi all’alterità, ma significano anche coscienza cristallina ed abnegazione.
Il saio. Una veste simbolica che allude alla purezza di spirito, la trasparenza toglie cesure, possibili demistificazioni che possano impedire la completa connessione tra chi guarda e l’animo del soggetto ritratto. La veste inoltre permette la perfetta contemplazione del corpo, anche nelle sue imperfezioni, come cicatrici ed altri segni che simboleggiano il “martirio” a cui ci sottopone la vita.
Lo sguardo. Gli occhi nel ritratto catalizzano l’attenzione come magneti, sono chiari come bagliori di luce nell’oscurità della notte, sono occhi dallo sguardo sicuro che trattengono a fatica vitalità e frammenti di vita mai svelati. Nel contempo quello sguardo ha la capacità non solo di essere introspettivo ma anche ispettivo verso gli altri.
La composizione. Nell’immagine oltre al soggetto rappresentato non compare altro. Ad assurgere a simbolo sono l’uso della luce che sembra accarezzare il corpo e lambire il fondale in cui si diffonde.
La poetica. È una immagine molto particolare in quanto l’uomo ritratto sembra quasi scolpito. Il suo corpo è simbolo di perfezione, incarna infatti una bellezza universale, quasi classica. La bellezza non è semplicemente la somma di proporzioni e canoni preordinati ma umanità, vocazione alla vita. Per questo degno di adorazione e di rispetto. Quel corpo elimina ogni barriera tra sé ed il mondo, travalicando giudizi, superstizioni e storia fino a diventare assoluto.
LIMES
Al fondo di me, la terra nera di un piccolo giardino. Protetta da un filo infrangibile di silenzio. Custodisce, quel quadrato di terra, il rumore dei miei passi; il dolore che mi è piovuto addosso, il sole di parole che mi ha sorriso e mi ha rialzato. È il suono del mio nome, quel giardino sommerso. La mia identità. La mia eredità. È un grumo di essere che mi impedisce di andare in mille pezzi, dentro al labirinto dei giorni. È un diaframma di esistenza che ti impedisce di toccarmi, oggi – che ti permetterà di conoscermi, amarmi, comprendermi, tra qualche secondo o forse mai, dentro un’intuizione di altrove. Non voler capire tutto – ma ascolta, accogli. Ama ciò che dubiti e dubita ciò che sei. Comprendere, in fondo, non è altro che contaminarti del mio limite. Dei miei simboli. Dei miei colori. Senza voler mai calpestare quel giardino, cinto di solennità, che mi rende unico. Prezioso. Altro.
Saper guardare dalla giusta distanza. Senza invadere quel giardino solenne e inaccessibile che ciascuno si porta addosso. Questo è il filo conduttore che accomuna le opere del ciclo ‘Limes’. Ogni immagine scava un solco ontologico; tra chi si autorappresenta – attraverso un gesto, un colore, un oggetto – e chi si contamina di quei simboli, rispettando un limite necessario e poetico di inconoscibilità. Erman Izzi, attraverso una ricerca emotiva e compositiva, esplora il delicato equilibrio tra esplicito e sommerso, tratteggiando la città invisibile che ciascuno di noi cammina; lo spettatore si ritrova infatti, immagine dopo immagine, nelle città sottili vagheggiate da Italo Calvino: Isaura, città dai mille pozzi, si presume sorga sopra un profondo lago sotterraneo. Dappertutto dove gli abitanti scavando nella terra buchi verticali sono riusciti a tirar su dell’acqua, fin là e non oltre si è estesa la città: il suo perimetro verdeggiante ripete quello delle rive buie del lago sepolto, un paesaggio invisibile condiziona quello visibile, tutto ciò che si muove al sole è spinto dall’onda, che batte chiusa sotto il cielo calcareo della roccia. Al fondo, si sente gorgogliare un pozzo oscuro, di cui solo noi conosciamo gli alberi, le pietre e le radici; dentro quell’acqua inquieta si nasconde l’antica curva di suono che rende un nome nostro – e nostro soltanto; si sedimentano quelle cicatrici di vita che hanno plasmato i nostri gesti e le nostre parole; quei solchi di esistenza che ci hanno resi più fragili, più aridi o più meravigliosamente umani.
In superficie, invece, riluce una pellicola fotografica, che ci rappresenta, ci nasconde e, nel contempo, ci dona all’altro. Sulla patina colorata emerge qualche frammento di quel pozzo sommerso – un gesto, uno sguardo. Un bottone che forse ci è scivolato dalla tasca, forse abbiamo lasciato cadere di proposito, nella speranza che l’altro lo raccolga. È un mistero, quel bottone, quello sguardo di pesca, tagliente e nudo; quel viola acceso, quella gomma americana che eterna e reifica un respiro. È un simbolo, che l’altro non può comprendere ma solo interpretare. Rendendoci nel contempo più soli e più ricchi. È un limite, quel bottone, che l’altro non deve oltrepassare, ma accogliere. Perché, per spogliarsi e per comprendersi, ci vuole tempo. E, soprattutto, ci vuole spazio. Perché la conoscenza fiorisce dove muore il giudizio. Perché, oltre i concetti di giusto e sbagliato, c’è un campo. Ti aspetterò laggiù.
I’M NOT THAT
Nel suo ormai storico saggio “La camera chiara” dedicato alla fotografia, il semiologo Roland Barthes sostiene che il ritratto fotografico sia un campo chiuso di forze; “quattro immaginari vi si incontrano, vi si affrontano, vi si deformano. Davanti all’obiettivo, io sono contemporaneamente: quello che io credo di essere, quello che vorrei si creda che io sia, quello che il fotografo crede che io sia e quello di cui egli si serve per far mostra della sua arte”. Se poi in questo campo di forze entra in gioco anche un titolo divergente come “I’m not that” che il fotografo Erman Izzi ha scelto di dare alla sua galleria di ritratti, ecco allora che subentra, inaspettato, lo spaesamento, i possibili sentieri che dal significante conducono ai significati si moltiplicano e la collaborazione interpretativa del fruitore di queste opere viene costantemente messa in discussione, frustrata nel momento stesso in cui è invocata, delusa ma continuamente stimolata.
I ritratti di Erman Izzi sono icone, si delineano nitidamente su uno sfondo dorato e, frontali e ieratici, si propongono allo sguardo del fruitore accompagnati solo dalla semplice didascalia che scandisce il nome che a loro si associa: proprio come icone bizantine, essi si manifestano all’attenzione dello spettatore come provenienti da un non definito altrove, con una forza interiore travolgente, epifanie di un’identità che nega se stessa nell’atto stesso del manifestarsi e interroga chi le guarda, più che fornirgli risposte. Ogni icona, inoltre, non si sottopone mai da sola all’attenzione del fruitore: l’hinc et nunc su cui si addensano i nostri interrogativi interpretativi, infatti, usufruisce, sempre e in ogni ritratto, di un altro appiglio, un altro iper-segno che non si sottrae all’inseguimento della significazione; può essere un ventaglio o un fischietto, un melograno aperto o un barattolo pieno di api, ogni ritratto porta con sé un oggetto, lo mostra, lo espone in un esplicito processo ostensorio che sfiora la teatralità. Non solo icone, dunque, ma anche immagini dialoganti e mai statiche, addensati di racconti, di episodi di vita passati o di ipotesi di futuro che fioriscono nell’immaginario di chi a loro si avvicina predisposto ad un ascolto intimo e biunivoco.
Nel palco scenico della fotografia nulla è lasciato al caso, tuttavia, al contrario delle icone bizantine che nascono sottratte alla dimensione della temporalità, i volti ritratti da Erman Izzi appartengono pienamente e senza dissimulazioni al nostro tempo; ce lo narrano i loro sguardi, ce lo suggeriscono il loro abbigliamento e le loro acconciature: apparizioni del contemporaneo (e non di un altrove metafisico), al contemporaneo si rivolgono e lo abitano non sottraendosi alle sfide che il nostro tempo propone.
IN LUOGO DI MARY
La Mary trae spunto dalla leggenda popolare di Bloody Mary, conosciuta anche come Mary Worth, Mary Worthington, o Hell Mary. È una storia che poco o nulla ha a che vedere con Maria Stuart. La Bloody Mary della leggenda è una fanciulla che i genitori ritennero morta di difterite e seppellirono. La madre le legò un campanello al polso, dubitando in cuor suo della realtà della sua morte, nella speranza che Mary potesse usarlo come un richiamo qualora si fosse risvegliata. E così fu, ma i soccorsi arrivarono troppo tardi.
Un tempo non era raro che persone dichiarate morte fossero in realtà ancora in vita. Oggi abbiamo un problema diverso, perché non sappiamo come gestire certi stati del corpo che non manifestano morte piena, ma che non senza perplessità possiamo chiamare vita.
Erman Izzi ha voluto rendere con la sua fotografia lo spirito di situazioni come queste, di estrema incertezza: il confine fra la morte e la vita, il movimento e la stasi, l’azione e la contemplazione. La sua Mary ha tutti i clichè della figura angelica: eterea, fatta di luce, a malapena distinguibile dallo sfondo luminoso su cui si staglia, pur maestosamente. Attorno alla vita, però, porta un cordone rosso, un legame, anche questo di lettura immediata: la madre, la terra, la vita, il sangue. All’estremità del cordone è legata la campanella, il segno che permette l’identificazione di Mary. La campanella è non meno fissa della figura di Mary, pur essendo raffigurata in movimento, come testimonia l’alone grigiastro che ha attorno. L’alone fa vibrare il colore così come la campanella scuote il silenzio. Tutto questo è realizzato con grande abilità tecnica, con destrezza: Mary potrebbe essere uscita da una rivista di moda, c’è un uso di codici e un’aura gothic che rendono quest’immagine facilmente digeribile, assorbibile. Ma c’è anche dell’altro. […]
LAVORI ACCADEMICI
La rappresentazione del corpo riceve un’elaborazione pittorica forte nella foto di Izzi, che mette in scena il corpo attraverso un’intensa modulazione drammatica del chiaroscuro e del viraggio cromatico.