Erman Izzi
Artista e fotografo, si è formato presso l’Accademia di Belle Arti di Urbino. Durante gli anni di studio, al linguaggio pittorico si sono affiancati l’interesse per la fotografia contemporanea e per il cinema, indirizzandone la ricerca verso un’indagine originale sull’individuo e sulla sua definizione identitaria. L’incontro con Tonino Guerra nel 2006 e la partecipazione a stage e seminari dedicati alle sceneggiature cinematografiche, hanno consolidato la sua espressione iconografica, manifestatasi attraverso la fotografia nelle forme più sperimentali e mature dei progetti In luogo di Mary (2007), I’m not that (2011), Limes (2020), Ara Hominis (2022).
Tra le mostre personali più recenti ricordiamo Limes e Ara hominis, presso Spazio Bianco di Pesaro, a cura di Roberta Ridolfi; I’m not that, presso l’Istituto Italiano di Cultura di Copenhagen, a cura di Fabio Ruggirello. Ha conseguito inoltre il primo premio Pittura/Fotografia nel concorso Dalla Terra, bandito da MIA (Meet in Art) per la FAO, conclusosi con una mostra collettiva presso Villa Piccolomini a Roma. Per la casa editrice Carocci (Roma) ha realizzato l’immagine di copertina del libro Il Plauto di Ruzante “tra la penna e la scena” (2020).
***
L’io e la simbologia dei suoi confini; la ricerca del limite, ontologico e conoscitivo, che separa l’individuo da tutto ciò inizia oltre la sua pelle, in bilico tra prossemica e pittura. È questo giardino rilkiano, cinto di gesto e solennità, il filo conduttore che rende la produzione artistica di Erman Izzi un continuum in crescendo. Una fertile osmosi tra iconografia e fotografia, tra armonia classica e destrutturante nudità interiore.
Sin dai primi anni di attività, che condurranno al conseguimento del diploma di pittura presso l’Accademia di BB.AA. di Urbino, nell’A.A. 2004/2005, la poetica di Erman Izzi (1977) si nutre di suggestioni e linguaggi diversi, primo tra tutti il cinema. Risale infatti al suo percorso universitario – e, in special modo, alla biennalizzazione del corso di ‘Teoria e metodo dei mass media’ – l’incontro con Lars von Trier. È proprio la violenza di von Trier, quella volontà di forzare il colore e piegare l’anima e il volto dell’attore, la molla che conduce Erman Izzi ad interrogarsi sui concetti di limite e di identità, nonché sulla capacità demiurgica dell’artista – nodi di senso attorno ai quali comincia a strutturarsi la sua riflessione teorica e la sua produzione artistica. Questa predilezione per il cinema trova compiuta espressione nella tesi di diploma in ‘Teoria e metodo dei mass media’, che esplora la dimensione onirica del cinema, dedicando particolare attenzione a David Lynch.
Il primo momento della produzione di Erman Izzi è caratterizzato dalla fissazione di una nuova tecnica, consistente nell’elaborazione pittorica della stampa fotografica. Intervenendo ad olio, attraverso velatura, su stampe digitali (plotter di grandi dimensioni), trasformando e ammorbidendo i netti controluce, Izzi reifica l’immagine che, passando dal buio alla luce, emerge solenne dal fondo, grazie a lumeggiature di ascendenza classica che le donano un calore cromatico. La persona – intesa nella sua etimologia latina di ‘maschera’ – è un grumo di sentimenti senza volto, un corpo che si muove in uno spazio fatto di luce e di ombra. Sono le mani, le tensioni del corpo ed i linguaggi non verbali ad incastrarsi in un chiaroscuro sapiente, sempre al limite tra sogno, percezione e realtà. In questo primo periodo Izzi si dedica all’esplorazione di due nodi centrali della sua poetica: il valore estetico del limite e la violenza dell’artista demiurgo. Da un lato, infatti, Izzi oltrepassa il limes tra diversi linguaggi: la pittura interviene sulla fotografia, la mano e l’occhio si fondono per ritrarre soggetti senza volto, immersi in un ambiente sospeso tra il sonno e la veglia. Oltre a ciò, le velature operate ad olio esprimono, in una gestualità di cromatismo, la volontà demiurgica dell’artista, che intervenendo sull’immagine ne piega l’anima, riempendone i vuoti o modulandone gli armonici.
Il disvelamento del volto – nonché l’esplorazione di altre sfumature del concetto di persona – si declina in maniera ancor più profondamente dolorosa nel ciclo successivo, dal titolo ‘In luogo di Mary’. Erman Izzi racconta la leggenda di Bloody Mary, una giovane che, solo apparentemente morta, venne seppellita dai genitori. Sua madre, con quella speranza che solo l’istinto del sangue può donare, le legò un campanello al polso. Per aspettare che la figlia le desse un segno. O forse, soltanto per concedersi il dono dell’aspettare – perché l’attesa, si sa, è il più amaro bottino che la morte porta con sé. Suonò, quel campanello, in un giorno qualunque. Quando persino la speranza aveva smesso di aspettare. Ma i soccorsi arrivarono troppo tardi, trovando soltanto le unghie disperate di Mary. Un’attesa delusa. Un tempo interrotto. Questa leggenda diviene per Erman Izzi un simbolo, in cui si intrecciano nodi antropologici senza tempo e sfumature urgentemente contemporanee, in un concept raffinato e denso, di immediato e violento impatto emotivo. In luogo di Mary esplora inquietudini ataviche, quali il kairòs, l’attimo delle occasioni e del rimpianto, il muro di vetro del tempo, su cui sbattono le mani di una madre. Il filo rosso che Mary porta all’altezza della cintola e che termina nel campanello è per l’appunto il luogo di senso che separa vita e morte, apparenza e realtà, attesa e assenza. La persona di Mary disvela il volto e lo sguardo, andando a rappresentare nel contempo l’individuale e l’universale. Rispetto ai corpi dal volto coperto della ‘prima maniera’, le Mary sono individualità concrete, dallo sguardo fermo che racconta il disincanto della morte. D’altro canto, Mary è una persona di carta, la protagonista di una leggenda – e ogni personaggio, si sa, è un’individualità generosa, un prisma che presta la sua voce ad altre mille storie. Dentro quel campanello rosso, infatti, si rifrange l’eco dei pensieri di chi guarda: la nostalgia dell’attesa, il rimpianto per essere arrivato troppo tardi, la domanda mai cicatrizzata circa la linea che separa la vita dall’altrove.
Oltre al disvelamento del volto, in questo ciclo Izzi esplora ulteriormente le potenzialità espressive degli oggetti: ogni Mary si relaziona infatti con un oggetto che le è estraneo e che nello stesso tempo la rappresenta, primo tra tutti il campanello rosso. Proprio nelle geometrie esistenziali che Mary crea, incastrando il suo movimento alla staticità del campanello o contrapponendo la sua rigidità di morte alla flessuosità del filo, Izzi declina la delicata relazione tra soggetto e oggetto – temi che trovano compiuta espressione nel suo progetto successivo, I’m not that, che ha riscosso numerosi consensi da parte di pubblico e critica.
Nelle sue I’m not that Izzi giunge al completo disvelamento del volto e declina, fino agli armonici più dissonanti, le contraddizioni insite nel concetto di persona, indagando quel limite labile e sorprendente che intercorre tra la percezione di se stessi e l’immagine riflessa. Ciascun ritratto risponde ad un concept uniforme, che vede al centro soggetto ed un oggetto, e si rivela il frutto di un fertile cortocircuito tra due ‘io’. Il soggetto, da un lato, mantiene in tutto e per tutto la sua identità – e, in primo luogo, il suo nome, che va a denominare ciascuna opera. Mentre fissa l’obiettivo, racconta la propria storia, che si esprime nel suo modo peculiare di guardare le cose e di relazionarsi con l’oggetto. D’altro canto, però, l’io ritratto si riflette nello sguardo di un altro ‘io’, che si nasconde dietro l’obiettivo e che, come un demiurgo, fa di quell’immagine un grumo di senso. È proprio l’incastro tra il soggetto e l’oggetto – che a volte si fonde col corpo, a volte ne resta irrimediabilmente estraneo – a creare un’icona densa di significati, un’immagine che nasce dall’incrocio di due voci che dicono ‘io’ e che, entrambe, si riconoscono e si sorprendono nella stessa rappresentazione.
I’m not that è una ricerca dell’identità per litote. Io non sono questo. Perché, per riconoscere la strada di casa, bisogna riappropriarsi dei vicoli che abbiamo abbandonato. Io non sono questo. Perché l’ ‘io’ di Izzi è filtrato dentro quello che ciascuno di noi chiama ‘io’, trasformando in immagine quell’attrito umano che ci atterrisce e definisce nello stesso tempo.
Nomi e oggetti; luce e pelle; sono questi gli strumenti grazie ai quali Izzi spoglia il concetto di humanitas – aggiungendo, nella sua più recente raccolta, un ultimo addendo: lo spazio. Se infatti nelle sue I’m not that aveva afferrato un’identità che è relazione, una simbologia esistenziale che nasce da una contaminazione emotiva tra due ‘io’, nelle opere di Limes Izzi si ferma, a piedi nudi, sul confine che lo separa dalla pelle dell’altro, appena prima che l’altro faccia un passo indietro. Compiendo la scelta più coraggiosa di tutte: il silenzio. Interpretare, infatti, è sempre ‘passare attraverso’: filtrare un’esistenza attraverso la propria esistenza, decriptare i segni dell’altro attraverso un proprio codice, rifletterne gli occhi dentro i propri occhi. Conoscere, invece, è fare silenzio e, soprattutto, concedere spazio alla libertà dell’altro, accarezzando il suo confine di senso. Senza voler capire sempre, capire tutto, ma accogliendo il meraviglioso mistero che ciascuno si porta dentro.
Guardare dalla giusta distanza. Avvicinarsi, fino ad un attimo prima che sia troppo. Senza invadere quel giardino solenne e inaccessibile che ciascuno si porta addosso. È questo il Leitmotiv che attraversa le opere di Limes – progetto che Erman Izzi ha scelto di presentare in anteprima nella sua città di adozione, Pesaro, come segno di bellezza e rinascita dopo la pandemia, nell’ambito di una mostra personale.
Ogni immagine di Limes scava un solco ontologico; tra chi si autorappresenta – attraverso un gesto, un colore, un oggetto – e chi si contamina di quei simboli, rispettando un limite necessario e poetico di inconoscibilità. Erman Izzi, attraverso una ricerca emotiva e compositiva, esplora il delicato equilibrio tra esplicito e sommerso, tratteggiando le città invisibili che ciascuno di noi cammina. Al fondo di ogni ritratto, infatti, si sente gorgogliare un pozzo oscuro, dove si annidano quelle cicatrici di vita che hanno plasmato i nostri gesti e le nostre parole. In superficie, invece, riluce una pellicola fotografica, che ci rappresenta, ci nasconde e, nel contempo, ci dona all’altro. Sulla patina colorata dell’immagine, che emerge con pittorica profondità dal nero, riluce qualche scaglia di quel pozzo d’identità sommerso – un gesto, uno sguardo, un oggetto. Un frammento d’identità che, prepotente, si spoglia e si offre, come un bottone che forse ci è caduto per sbaglio da una tasca, forse abbiamo lasciato scivolare di proposito, nella speranza che l’altro lo raccolga. È un mistero, quel bottone – che l’occhio di Izzi coglie grazie allo spazio e al silenzio che ha concesso all’altro. Decriptando disarmonie esistenziali ed oggetti che diventano veri e propri correlativi oggettivi; esperienze tattili di un viaggio senza parole. Elaborando una poetica di conoscenza che è suggestione, intuizione, rispetto.
Limes_Simone, una sinestesia di colori dentro l’irrimediabile simbologia del tempo; la vertigine di mille capelli viola, e il gesto di chi si volta, una volta soltanto.
Limes_Gloria, mani di pesca e sguardo di luce; coltello e carezza di un frutto sbucciato per la persona amata.
Limes_Christian, una linea di senso tra il cielo e la penombra di una ragnatela, diafana e terribile.
Limes_Prince, un disegno antico sugli occhi, dentro un labirinto d’acqua che ha salvato e sommerso.
È un simbolo, ogni opera di Limes, che Izzi intuisce nel mistero dell’altro; un solco poetico e violento, che egli non oltrepassa, ma accoglie e reifica, al crocevia di fotografia e pittura. Perché, per spogliarsi e per comprendersi, ci vuole tempo. E, soprattutto, ci vuole il coraggioso rispetto di fare un passo oltre la propria pelle. Un passo verso l’altro, un passo prima del troppo. Perché la conoscenza fiorisce dove muore il giudizio. Perché, oltre i concetti di giusto e sbagliato, c’è un campo. Ti aspetterò laggiù.
Laggiù, dove si può essere nudi senza avere freddo; nudi oltre il muro della propria stanza. Nudi in mezzo agli uomini, senza aver bisogno di un nome né di una cravatta per definirsi.
È questo cammino a ritroso che conduce Izzi sull’ultimo lembo di spiaggia, davanti all’altare dell’essere umano. Ara hominis. Un’icona che rappresenta la summa della sua poetica ed estetica compositiva, l’approdo della sua ricerca dell’humanitas.
Saper giungere all’essenza è saper togliere; ed Izzi spoglia, pezzo a pezzo, la sua poetica, esaltandone l’umana sacralità in un’immagine di altissimo impatto visivo ed emotivo. Spoglia il soggetto del suo nome, perché l’immagine che Izzi ritrae è quella dell’homo – cioè dell’essere umano, di quell’essere portatore di respiro, di anima e materia. Spoglia la funzione dell’oggetto, che non copre ma riluce, su una nudità di sguardo e gesto; un saio, lungo e solenne nella sua trasparenza, che abbraccia di chiaroscuri un corpo espressivo di modernità e poetico di pittorica iconografia. Due orecchini raddoppiano la luce urgente degli occhi – che, azzurri di un cielo di quasi primavera, bucano la tela fotografica. Un piede, fuori dal saio, inchioda lo spirito alla terra nuda e un volto, solenne nella sua umanità, inchioda lo spettatore di fronte alla sacralità dell’homo, alla sua dignità, all’orgoglio della sua irripetibile caducità.
Isabella Valeri